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IL CORAGGIO DI TAGLIARE

Il dibattito sulle province è finto, visto che non sono mai state abolite se si escludono le indennità a consiglieri e presidenti. Segno che la macchina pubblica è ancora quella “bestia” ingorda e difficile da mettere a dieta. Ma, visto che tra pochi mesi saremo costretti a scegliere se aumentare o meno l’iva, bisogna fare una riflessione strutturale su come tagliare la spesa pubblica – unica alternativa ad un aumento delle tasse – visto che non si possono fare magie, né tantomeno ci si può affidare agli slogan. Prima di tutto è errata l’idea che a risolvere tutto possa essere l’ennesimo commissario alla spending review. Da una parte perché, visto che il peso della spesa pubblica è circa il 50% pil, non è certo sufficiente andare a cercare gli sprechi con il lanternino. Per quanto questi siano odiosi, infatti, il loro ammontare non è sufficiente a  far cambiare verso al Paese e a ridurre il peso (anzi il sovrappeso) della macchina amministrativa.

Bisogna invece intervenire con serie riforme drastiche, che necessitano però di scelte e responsabilità politica, possibilmente con un mandato elettorale. E per fare questo, allora, non ci si può affidare a dei semplici commissari pro-tempore. Se analizziamo la struttura dello Stato e degli enti locali, per esempio, ci accorgiamo di un’inestricabile stratificazione, di una moltitudine di centri con potere di spesa e diritti di veto, una miriade di enti sovrapposti e disfunzionali che creano uno sistema spendaccione e paralizzante. Lo Stato, le Regioni, le Città metropolitane, le Province e i Comuni sono i vari soggetti definiti dall’articolo 114 della Costituzione, a cui bisogna aggiungere Unione europea e altre organizzazioni internazionali, senza dimenticare l’affastellato universo composto da comunità montane, enti di bacino, municipalizzate, consigli di quartieri e chissà quali altri enti di secondo e terzo grado. Ecco, al di là delle sterili polemiche sui “poltronifici”, è evidente che sul decentramento amministrativo dobbiamo drasticamente intervenire non tanto e non solo per un risparmio sul personale, ma perché sono davvero troppi i soggetti politico-amministrativi che rendono farraginosa,stratificata e complicata ogni decisione, ogni competenza, ogni azione. In particolare, l’unione volontaria del Comuni sotto i 5.000 abitanti – che sono il 70% del totale degli 8.000 presenti in Italia – è stata un fallimento, tanto è vero che essi più sono territorialmente contigui più vanno in concorrenza (per la gestione dei fondi, per gli ambiti territoriali, per la gestione delle attività economiche). E poi le Province, che non se ne sono mai andate e hanno conservato la competenza su 130 mila chilometri di strade e 5100 edifici scolastici con risultati non certo eccellenti, oltre ai centri per l’impiego e qualcosa su caccia e agricoltura. Tanto che nel 2018 sono state rifinanziate per ulteriori 380 milioni da parte dello Stato. Poi le Regioni, che per l’80% delle loro attività si occupano di sanità, con risultati scandenti. Dalla riforma del Titolo V del 2001, che ha creato 20 sistemi sanitari diversi, la spesa sanitaria a livello complessivo è passata dai 42 miliardi di euro del 1990, ai 60 del 2000, fino ai 114 attuali.

In pratica, nel decennio precedente la regionalizzazione è cresciuta del 19,3%, mentre in quello successivo del 70%. Senza contare le gestioni clientelari delle Asl – nomine, acquisti, appalti – con i servizi che sono assai peggiorati. Non c’è dubbio allora che tagliare qualche spreco è sempre giusto, ma limitato. Servirebbe creare un sistema amministrativo efficiente che metta lo Stato al servizio del cittadino, mentre ora sono solo le persone, le famiglie e le aziende a “servire” lo Stato e tutta la miriade di enti locali aggiunti. E per fare questo serve coraggio e responsabilità politica. Bisogna però domandarsi se in circolazione ve ne sia a sufficienza.

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17 Ottobre 2024

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