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Si-Tav, madre di tutte le battaglie

Siamo all’ultima chiamata. Oggi scadono i bandi per la Tav e in aula al Senato si discuterà il decreto sblocca-cantieri, con un emendamento che potrebbe consentire la nomina di un commissario all’opera, se essa verrà definita “strategica”.

E che sia strategica non ci sono dubbi. Sia in quanto tale, sia come simbolo del nostro collegamento all’Europa, simbolo della nostra (mancata) modernizzazione, della (in)capacità di guardare al futuro. Per cui non bisogna abbandonarsi all’ideologia né alle strumentalizzazioni ma andare avanti con l’opera. Il punto è che sono passati 30 anni da quando si è iniziato a parlare del progetto, un tempo sufficientemente lungo – è un eufemismo – per analizzare, discutere, valutare. Alla fine, dopo varie modifiche, incontri con le comunità locali, qualche titubanza e molti ritardi, l’opera ha ricevuto il via libera. E quindi può e deve partire non solo perché nel resto d’Italia l’alta velocità è ormai una realtà, come anche in tutto il Continente, ma perché le ferrovie sono sempre state costruite, contemporaneamente sintomo e veicolo di sviluppo economico e sociale. Ecco perché l’analisi della commissione costi/benefici richiesta dal governo soffre di una serie di errori.

Il primo è che per stimare il flusso di traffico merci è stato preso come riferimento il pil del 2015, cioè il punto più basso in dieci anni, ipotizzando che sia quella la nostra condizione (in)naturale. Inoltre, viene giudicato “improbabile” un aumento dei flussi passeggeri e merci del 2,5% all’anno, condannandoci così alla decrescita (in)felice.

Soprattutto, c’è dell’anti-ambientalismo, perché con la Tav ci sarebbe più traffico su ferro e meno su gomma e quindi 1,6 miliardi di tasse sui carburanti dei Tir in meno e 3 miliardi di minori pedaggi autostradali, ma maggiore inquinamento, secondo una visione retrograda che avvantaggia la produzione di Co2. Tra l’altro in un’analisi simile inviata a Bruxelles e che riguardava l’Alta Velocità in Europa, questi criteri sono stati applicati in maniera opposta dagli stessi tecnici scelti dal Ministro Toninelli.

Il punto è che ogni anno Italia e Francia scambiano 43 milioni di tonnellate di merci, ma solo l’8% viaggia su ferro e tutto il resto si sposta su gomma. Una situazione antistorica che fotografa la punta dell’iceberg di un’Italia che non va più in avanti, ma all’indietro. Tanto è vero che se negli anni Sessanta e Settanta avevamo la migliore rete ferroviaria del Continente, mentre oggi i nostri 923 chilometri di binari sono assai meno di quelli tedeschi (1.285), francesi (1.896) e spagnoli (2.056). Per non parlare di stazioni, collegamenti intermodali, strade, autostrade e metropolitane.

Un deficit che ci costa decine di miliardi di euro e che dobbiamo tornare a recuperare il prima possibile partendo dalla madre di tutte le battaglie: quella Tav per cui il tempo delle scelte è arrivato e quello delle ideologie è scaduto. Oggi è il giorno del giudizio in cui parlamento e governo devono affrontare, risolvere e superare, ad elevata, anzi, ad alta velocità.

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17 Ottobre 2024

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