Stiamo andando incontro ad una crisi economica di proporzioni mai viste. E quelli che erano errori gravi prima, adesso sono sentenze letali. Le regole del mercato del lavoro, per esempio, sono da tempo inadeguate, troppo vecchie e arretrate rispetto l’attuale organizzazione delle imprese. Purtroppo, invece di andare avanti adeguando le norme alla realtà, c’è chi vuole tornare indietro pensando di poter creare occupazione per decreto. Con il rischio che i danni, invece di essere limitati, vengano amplificati.
Attualmente, anche per il divieto dei licenziamenti, a soffrire di più sono i lavoratori con contratto temporaneo. Nei primi tre mesi del 2020 sono andati bruciati 239 mila posti di lavoro, di cui 220 mila solo a marzo poiché, sottolinea l’Istat, non vengano stipulati nuovi contratti, ma soprattutto non vengono rinnovati quelli a termine. Per l’Anpal entro fine anno saranno mezzo milione i posti persi, di cui 400 mila “a tempo”. Ed è su questi ultimi che pesano le stringenti clausole previste dalla norma bandiera dei 5Stelle, il cosiddetto decreto Dignità, che limitano i rinnovi a singoli casi specifici.
A maggio è stata messa una toppa, sospendendo l’obbligo di inserire la causale per i rinnovi dopo il primo anno, una misura che il Ministero dell’Economia vorrebbe allungare fino a fine anno, ma che acceso le proteste dei 5Stelle. Eppure, è facile comprendere come in questi mesi terribili la flessibilità non deve essere ostacolata, visto che la priorità assoluta dovrebbe essere quella di creare occupazione, che certo non nasce per norma di legge o leggendo la realtà con le vecchie lenti dell’ideologia.
I pentastellati cavalcano da tempo vecchi slogan stantii, superati dall’evoluzione dell’organizzazione del lavoro: “lavorare meno lavorare tutti”, il totem dell’articolo 18 e, appunto, il cosiddetto “decreto Dignità”, che Di Maio presentò come “il colpo mortale al precariato”. In realtà, non è andata così. Come si è rivelato falsa la promessa del governo, secondo cui “in questa crisi nessuno perderà il lavoro”. Ad oggi, infatti, si bruciano 20 mila posti al giorno. E proprio coloro che non hanno un’occupazione stabile sono quelli che se la passano peggio.
Il mercato del lavoro ha bisogno di molte cose, tranne che dei vecchi schemi ideologici. Non è più vero, infatti, che il contratto a tempo indeterminato sia il centro del sistema. Ma in una crisi come questa anche i più intransigenti dovrebbero avere come priorità la creazione e il mantenimento del lavoro, anche se temporaneo. Che poi, se ben organizzata, la flessibilità (non la precarietà) è un vantaggio sia per le imprese che per i lavoratori, poiché l’organizzazione produttiva è oggi distante anni luce dalla fabbrica fordista del Novecento e dalle teorie nate sulle otto ore alla catena di montaggio. E anche il “mito del posto fisso” vacilla, specie tra i più giovani.
Anche prima della pandemia il mercato del lavoro era vittime di leggi troppo vecchie che irrigidivano i processi produttivi. Competenze tecnologiche, produttività e competitività in Italia erano tra i più bassi dell’Occidente, come anche il numero di persone con un’occupazione (solo 23 milioni su 60). Non è rispolverando gli schemi delle ideologie novecentesche o difendendo l’inutile o controproducente bandieruola del decreto Dignità che potremo migliorare la situazione o ripartire dopo la pandemia. Anzi, si rischia solo di aggravare la situazione. Bisogna farsi un bagno di realtà e rendersene conto.