In un mondo ideale sarebbe perfino giusto, ma nella realtà l’introduzione del salario minimo genera più danni che benefici. E, purtroppo, ultimamente il tema è stato riproposto da Pd e 5stelle, ma come al solito in modo superficiale e come soluzione semplice a problemi complessi. È vero, in Europa si sta lavorando a una direttiva in materia, il cui vero scopo però è incentivare la contrattazione collettiva laddove essa è non c’è e non, come racconta qualche politico, istituire un “salario minimo europeo”. Quest’ultimo è una buona intenzione nella forma, ma deve fare i conti con almeno tre elementi di realtà. Il primo è il peso del cuneo fiscale, che nel nostro Paese incide tantissimo sulle retribuzioni (siamo in fondo alla classifica dei Paesi industrializzati), tanto che aumentare di un euro la paga netta al lavoratore significa una spesa di almeno due euro per l’azienda. Pensare di intervenire per legge, imponendo dall’alto una soglia minima ai salari equivale a una forzatura controproducente, spinge le imprese fuori dal mercato. La struttura del mercato del lavoro affonda poi le radici nei territori e nei loro ecosistemi produttivi, per cui un operaio nel Mezzogiorno difficilmente guadagna quanto uno del Settentrione o del Nord Europa. Voler pareggiare tutto con un tratto di penna è irrealistico. Senza dimenticare che le retribuzioni sono legate alla produttività, che nel nostro Paese è rimasta al livello di vent’anni fa.
Bisogna invece ricordare che i minimi salariali sono già all’interno dei contratti collettivi di lavoro (per esempio per i metalmeccanici si arriva a 10 euro). Valori che sono anche applicati dai giudici come benchmark nelle vertenze dove non c’è un accordo di riferimento. La cifra potrebbe e dovrebbe aumentare, ma c’è da stare attenti: laddove il salario minimo è stato introdotto, il trend generalizzato delle aziende è uscire dal sistema della contrattazione. Questo, sarebbe un grave danno anche per i lavoratori, poiché la titolarità a stabilire le condizioni di lavoro passerebbe dalle loro mani a quelle dello Stato (e della politica). Un harakiri cui si aggiunge che proprio lo Stato è meno reattivo a recepire i cambiamenti (inflazione, welfare aziendale, crisi economica) e quindi non il soggetto più efficiente a regolare le relazioni industriali. Dentro i luoghi di lavoro ci sono le parti sociali, non i burocrati.
Teoricamente l’introduzione del salario minimo potrebbe poi anche aumentare l’occupazione, poiché guadagni maggiori producono una maggiore attrattività ad andare a lavorare. Tuttavia, l’idea che circola tra i proponenti è fissare il limite legale al 50% della linea mediana delle retribuzioni, che è intorno ai 10 euro lordi l’ora. Il salario minimo, quindi, si attesterebbe intorno ai 5 euro e, per 40 ore a settimana significa 800 euro lordi, 400 netti mal contato: non proprio la panacea di tutti i mali. Se poi c’è il reddito di cittadinanza, il cui importo si avvicina e talvolta supera la retribuzione minima stabilita dalle norme, è chiaro che il beneficio sull’occupazione sarebbe marginale, se non inesistente. E quindi non ci sarebbe nessuna spinta ad andare a lavorare, visto si può incassare un assegno equivalente, o perfino più alto, senza far nulla. Non si risolvono per decreto problemi complessi. E la politica sbaglia a cercare facile consenso. Piuttosto, dovrebbe porre attenzione ai problemi reali, a cominciare dal cuneo fiscale, dalla produttività ferma al palo, da tasse pesanti e opprimenti, da una burocrazia nemica della crescita economica. Invece sembra vivere nel mondo delle favole.
Stefano Ruvolo
Presidente Confimprenditori Nazionale, associazione che raggruppa oltre 300 mila piccole e medie imprese.