Continuano a susseguirsi le proposte. L’ultima, del Ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico per un “salario minimo per tutti i cittadini europei”, arriva dopo giorni di dibattito sulla possibilità di garantire a operai e dipendenti italiani una soglia fissata per legge. Tra gli emendamenti al “decretone” che istituisce il reddito di cittadinanza, poi, viene introdotto un limite, pari a 858 euro, al di sotto del quale l’offerta di lavoro è definita come “non congrua” e può quindi essere rifiutata. Di fatto, una forma mascherata di salario minimo. Ora, è confermato da tutte le statistiche come gli stipendi italiani siano troppo bassi, ma tentare di risolvere il problema con un’imposizione dall’alto che fissa uno standard vincolante per legge, senza prima aver sentito le associazioni datoriali, significa affrontare la questione dal lato sbagliato. Anche perché, come riconosciuto da associazioni di imprenditori, sindacati e organizzazioni internazionali, il vero nodo dei salari troppo bassi è un cuneo fiscale troppo alto, che oltretutto penalizza la competitività delle nostre aziende.
Infatti, secondo il rapporto Taxing wages dell’Ocse, l’Italia è quinta su 34 Paesi per quanto riguarda il carico di fisco e contributi rispetto agli stipendi netti. Si tratta di una cifra elevata, pari al 47,7%. Tradotto, significa che per ogni 100 euro in busta paga, il lavoratore ne versa 45 allo Stato e l’azienda 46. Sempre secondo lo stesso rapporto Ocse, le nostre imprese sono tra le più penalizzate visto che nella classifica dei versamenti all’erario da parte delle aziende la Francia è prima con 52 euro pagati allo Stato ogni 100 euro al lavoratore, ma poi ci siamo noi con 46 e solo successivamente la Spagna con 38 e la Germania con 32. Senza dimenticare che negli ultimi anni tedeschi e francesi hanno tagliato il cuneo fiscale rispettivamente dello 0,9% e dell’1,7%, mentre noi lo abbiamo alzato dell’1,1%.
Inoltre, tale “cuneo” è solo uno dei molti elementi che zavorrano la competitività delle nostre imprese. Esso, infatti, oltre a rendere più poveri i lavoratori, penalizza aziende italiane già in svantaggio rispetto alle cugine del resto d’Europa, visto che sia i costi diretti (amministrativi, burocratici, energetici) che quelli indiretti (lentezza della giustizia civile, assenza di infrastrutture) sono assai più alti della media. Adottare misure normative che aumentano ancora di più il costo del lavoro, quindi, equivarrebbe ad imporre un ulteriore handicap per imprese che devono confrontarsi con l’agguerrita concorrenza dei mercati internazionali.
Piuttosto, una riduzione incisiva e stabile del cuneo fiscale consentirebbe a imprese e lavoratori di concentrarsi sul rilancio della produttività, visto che quella italiana è ferma dal 2001 e quella del lavoro, in particolare, ha una media di crescita annua inferiore di un quinto a quella Ue (+0,3% a fronte di +1,6%). Ma questo si ottiene detassando i premi di produttività, favorendo la contrattazione decentrata e di secondo livello, investendo sulla formazione dei giovani e dei meno giovani, mettendoli al passo con tecnologia e innovazione. Non fissando un minimo assoluto poco in linea con la realtà.