di Stefano Ruvolo, presidente Confimprenditori
Impegnati nell’interpretazione della parola “congiunti”, ci si dimentica della parte più importante del tessuto produttivo italiano, cioè quelle 5,2 milioni di piccole imprese che rappresentano il 92% del totale. Per esse, oltre ad una situazione oggettivamente più drammatica, si aggiunge il totale fallimento di ogni azione di protezione messa in campo, anzi annunciata, dal governo.
A seguito del lockdown, infatti, quest’anno ci sarà una caduta del pil mai vista, stimata dal governo a -8%. Se le chiusure riguardano in media il 51,3% delle aziende (dati Istat), si passa però dal 33,8% per quelle con oltre 250 dipendenti al 66,7% di quelle unipersonali. Chi è più piccolo, insomma, deve fronteggiare problemi maggiori, anche perché, essendo quasi sempre attività svolte da imprenditori, artigiani e professionisti che lavorano per vivere, da soli e in prima persona, privi di una struttura e di una organizzazione alle spalle, queste hanno minori risorse per reagire alla crisi rispetto a un grande gruppo, ma rimangono il tessuto a maglie strette su cui si regge la nostra economia. Il governo putroppo sembra averle dimenticate, commettendo un doppio errore: da un lato, ignorando una parte fondamentale del Paese; dall’altro, provocando danni che rischiano di diventare irreparabili. Per tutti.
L’annuncio del Presidente del Consiglio sulla fase due rinvia la riapertura degli esercizi commerciali e di tante attività nel turismo e nei servizi, in modo uniforme e in tutta Italia. E non si capisce perché una fabbrica in Lombardia (dove si continuano a registrare centinaia di nuovi casi ogni giorno) abbia potuto rimanere aperta sempre in questi due mesi, mentre in Umbria, Basilicata o nelle Eolie (dove non ci sono nuovi contagiati), un negozio di abbigliamento di prossimità, in cui si entra uno alla volta, debba rimanere chiuso almeno per altre settimane. Ogni giorno di chiusura in più produce danni gravissimi, che possono diventare irreparabili. La stagione turistica ed estiva è praticamente cancellata, per cui il non poter vendere nemmeno un caffè almeno fino al primo giugno (forse) equivale ad una lenta condanna a morte. Tanto più che i costi degli affitti, le bollette e molti altre spese operative non sono state cancellate.
Il decreto liquidità si è rivelato un fallimento e non stanno arrivando né i prestiti né le garanzie promesse. Sono passati più di 60 giorni da quando Giuseppe Conte annunciò di “essere a lavoro su un piano per la ripartenza”, di cui però non si vede nemmeno l’ombra. Adesso è la stessa Banca d’Italia a lanciare l’allarme. I prestiti agevolati creano solo nuovo debito e senza contributi a fondo perduto – che serviranno non tanto a coprire le perdite di fatturato ma i costi vivi – molte medie, piccole e micro imprese non riapriranno più. Se non agiamo subito sarà troppo tardi e la malattia diventerà incurabile. Chiuderanno centinaia di migliaia di attività e verranno persi per sempre milioni di posti di lavoro. Il che, come effetto collaterale, equivale al completo collasso economico del Paese.
D’altra parte, se le imprese sono state chiuse per contenere l’emergenza sanitaria e proteggere la collettività, è la collettività che ha il dovere di ricambiare, evitando che quelle imprese paghino il prezzo più alto, correndo il rischio di chiudere definitivamente. D’altra parte, stiamo parlando del 92% delle imprese italiane. Purtroppo, ogni giorno che passa, ogni rinvio, ogni incertezza, ogni volta che il governo agisce ignorando le oltre 5 milioni di realtà che compongono il corpo vivo dell’Italia, la speranza di ripartire si allontana. E si avvicina invece quella della chiusura. Ma intanto continuiamo a parlare di “congiunti”.