Dopo la Corte dei Conti è arrivato l’Ocse a certificare lo stato della pressione fiscale e il livello parossistico del costo del lavoro in Italia. Il livello di tassazione è talmente alto che pone l’Italia al diciassettesimo posto tra i 34 paesi dell’area Ocse.
Naturalmente il peso maggiore del costo del lavoro è sulle spalle delle imprese i cui contributi rappresentano il 24% del totale. Dati devastanti soprattutto per le aziende rispetto ai quali, secondo ripetute indiscrezioni che trapelano da palazzo Chigi, il governo vorrebbe rispondere con una misura placebo: la riduzione del cuneo fiscale triennale per quelle aziende che assumeranno giovani a tempo indeterminato. Il cuneo fiscale attuale in Italia è diminuito rispetto al 2015 di 0,1 punti per le famiglie e di 0,08 per i single, mentre Francia e Finlandia lo hanno ridotto rispettivamente di 0,47 e 0,34 punti e di 0,30 e 0,22 punti.
Si tratterebbe, se dovesse effettivamente essere questa la scelta finale, della prosecuzione del Jobs act con altri mezzi, nuovi incentivi che funzioneranno come un doping sul mercato del lavoro fino al fatale appuntamento con il rinculo occupazionale al termine temporale degli incentivi. Tutto già visto e vissuto sulla pelle degli italiani. Sarebbe lo stesso esito appunto del Jobs act.
Quello che serve è altro: un deciso taglio al cuneo fiscale di almeno 10% e politiche serie di spending review sulla spesa pubblica improduttiva per garantire copertura a una riforma strutturale del costo del lavoro. Se così non dovesse essere, se il governo non dovesse davvero muoversi nella direzione di prospettiva viene davvero da pensare che sarebbe stato meglio, per il premier Gentiloni, non annunciare affatto il taglio del cuneo fiscale. Del resto alla politica degli spot e degli annunci l’Italia e in particolar modo le Pmi sono già stati abituati dal predecessore (contatore debiti della Pa docet). E quel passato recente di promesse non mantenute brucia ancora.