L’Italia non è un Paese a misura di Pmi. Lo dimostrano i dati diffusi dalla Corte dei Conti che evidenziano come pressione fiscale e costo esorbitante degli adempimenti fiacchino la competitività delle piccole e medie imprese. Sugli imprenditori pesa un cuneo fiscale del 49%, dato nettamente superiore alla media europea e che fissa in un’eccedenza di dieci punti il cuneo fiscale e contributivo italiano.
Negli anni l’Italia ha attuato una politica economica basata sul taglio delle detrazioni e delle deduzioni, ma tutto ciò si risolve pur sempre in un aumento della pressione fiscale. L’Italia, inoltre, rispetto agli altri stati membri dell’Unione Europea ha il peso maggiore di sconti fiscali rispetto al Pil e le detrazioni e deduzioni, negli anni, invece che diminuire sono aumentate. Tutto ciò fa da scenario al Def, il cui varo dovrà tenere conto di tutte queste zavorre. Quella dell’Italia fino ad ora resta una politica miope che per fare cassa, ha investito sulle anticipazioni di gettito, su giochi e lotterie. Ma quest’ultimo in particolare, è un settore ormai verso la saturazione e che non rimpinguerà più le casse dello Stato come in passato.
Pensare quindi di far derivare le proprie entrate solo aumentando le imposte e i controlli, senza implementare i redditi, non metterà in moto alcuna ripresa economica come ha dimostrato il recente passato. Ecco perché continuare a ragionare su un aumento dell’Iva pare essere un altro modo per restare su una strada che finora non ha portato a niente. Contenuto nelle clausole di salvaguardia, l’aumento dell’Iva, resta ad oggi fra le imposte più evase. Sull’Iva la differenza tra il giro d’affari e le tasse versate è del 32% (contro la media europea del 17 per cento), viene perciò meno un terzo del gettito. Aumentarla, però, produrrebbe solo un’immediata depressione dei consumi interno a detrimento delle piccole e medie imprese.