L’idea ora tanto di moda di fissare a 9 euro lordi il minimo di paga oraria per gli italiani potrebbe all’apparenza sembrare una norma di giustizia sociale, ma è in realtà un boomerang per imprese, lavoratori e economia. Non c’è dubbio che i salari in Italia siano troppo bassi, ma non è semplificando il tema, intervenendo dall’alto in modo imperativo, senza oltretutto conoscere il tessuto economico e solo per cercare qualche voto in più, con lo slogan del “salario minimo”, che si può risolvere il problema.
Innanzitutto, perché l’80% dei lavoratori sono già coperti dagli accordi collettivi, poi perché fissando questa bandierina si rischia di creare numerosi problemi. Per esempio, uno procedurale, visto che stabilendo il minimo per legge si priverebbero sindacati e associazioni datoriali e tutte le parti sociali del ruolo che gli assegna la Costituzione. Imporre in modo vincolante qualcosa che deve essere deciso dal mercato equivale inoltre ad una forzatura in cui, invece di premiare i meritevoli, si livellano tutti verso il basso. Ma non solo, si imporrebbero alle imprese dei costi “fuori mercato” – come fosse un’economia pianificata sul modello sovietico – mentre non si interviene dove sarebbe necessario, e cioè sul cuneo fiscale.
Sono poi gli stessi sindacati a sottolineare che un minimo uguale per tutti è ingiusto: anche al livello base, in ospedale si fa un lavoro più qualificato che in un call center. Inoltre, un limite posto verso il basso, può avere l’effetto collaterale di bloccare chi va verso l’alto. Ma, soprattutto, è condivisa da tutti l’idea che il salario minimo possa essere una bomba pronta ad esplodere la cui miccia si chiama: “riparametrazione”. Se il primo assunto prende 9 euro, infatti, bisogna rivedere e ricalibrare le retribuzioni di tutti gli altri. Così, a fronte di un aumento di 100 euro per il nuovo arrivato, il capo reparto, dovrebbe mettersi in tasca 200 euro, che equivale a dire 400 per l’impresa.
Ecco, visto che il vero nodo che penalizza buste paga e imprese è un cuneo fiscale troppo alto (al 47,7%), il quintultimo tra 34 Paesi Ocse. Evidentemente non è questa la strada. Per avere dei numeri, per ogni 100 euro in busta paga l’azienda ne deve spendere quasi 200. Insomma il doppio, con le nostre imprese assai penalizzate se devono competere nei mercati globali, visto che per esempio, in Spagna il cuneo fiscale è 8 punti più basso e in Germania addirittura 14. Senza dimenticare che negli ultimi anni tedeschi e francesi hanno tagliato il cuneo fiscale rispettivamente dello 0,9% e dell’1,7%, mentre noi lo abbiamo alzato dell’1,1%.
Ecco, piuttosto che lanciarsi (e lasciarsi andare) verso slogan facili, ma ingannevoli, pensiamo che una riduzione incisiva e stabile del cuneo fiscale consentirebbe a imprese e lavoratori di concentrarsi sul rilancio della produttività, visto che quella italiana è ferma dal 2001 e quella del lavoro, in particolare, ha una media di crescita annua inferiore di un quinto a quella Ue (+0,3% a fronte di +1,6%). Ma questo si ottiene lavorando seriamente sulla detassazione dei premi di produttività, sulla contrattazione decentrata, sul taglio delle tasse, degli oneri e dei mille balzelli visibili e non visibili.