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Mpi, tutelarle e incentivarle fra innovazione e burocrazia

 

Piccole sì ma dalle possibilità illimitate grazie all’economia digitale; aperte alla ricerca e alla sperimentazione più delle grandi aziende e per questo meno propense ai licenziamenti e alle delocalizzazioni; ignorate dal sistema creditizio per le loro dimensioni e per questo non dirette responsabili della crisi del sistema creditizio. Vittime, come le grandi aziende di una burocrazia che imbriglia. E’ questo in breve lo spaccato che delinea lo stato delle Mpi (Micro e Piccole Imprese) in Italia.

Da sempre il nostro è stato paese di piccole e medie imprese definito per anni come la seconda potenza manifatturiera dopo la Germania. Ad indagare la realtà delle Mpi (Micro e Piccole Imprese) esce ora un saggio dal titolo “Artigianato e piccole imprese patrimonio per i territori” (edizioni Franco Angeli).

La domanda di fondo che sottende tutto il saggio è: davvero la dimensione aziendale ridotta tipica delle nostre imprese è uno degli elementi causa di minore competitività? Il dibattito che si apre è molto ampio e parte proprio dall’analisi dell’economia italiana basata principalmente sull’assenza di grandi gruppi e grandi aziende a favore delle piccole imprese che hanno così alimentato un capitalismo finanziario, conseguenza della rarefazione delle poche grandi imprese. Il modello della piccola impresa si lega a doppio filo ad un modello imprenditoriale con una struttura frammentata. L’identikit delle micro-imprese? Massimo dieci addetti e una copertura sul territorio italiano del 94%.

Quella dell’Italia, però, non è sempre stata una vocazione di micro-impresa. Anzi. Agli inizi degli anni ’70 c’era un sostanziale equilibrio fra piccole, medie e grandi imprese. Un equilibrio mutato con la prima crisi industriale. Oggi l’86 per cento delle aziende italiane fa capo ad una famiglia che ne è la proprietaria e di questa percentuale il 66,3% ha un management interamente familiare. Solo 1/3 di queste ha manager esterni alla famiglia. Il concetto di piccola dimensione è mutato nel tempo non solo per le variabili che tradizionalmente possono essere utilizzate (fatturato, numero addetti, valore aggiunto) ma anche per il ruolo delle ICT e dell’economia digitale che offre nuove opportunità. Proprio la possibilità di accesso alle nuove tecnologie e quindi la possibilità di fare rete annulla in parte il dibattito sul peso della grandezze delle imprese.

Croce condivisa fra micro, piccole, medie e grandi imprese, la burocrazia. Anche in quest’ambito, come specificato dal saggio, la burocrazia è un fattore frenante per lo sviluppo e nel testo si citano differenti studi che dimostrano come tale fenomeno produca effetti ancor più negativi nelle organizzazioni meno strutturate. Rispetto ad un set di dieci indicatori chiave relativi alle condizioni di contesto che influiscono sulla produttività delle piccole imprese, l’Italia ha un generale ritardo rispetto alla media europea. Si tratta di ambiti nei quali negli ultimi due anni c’è stato un intervento di riforma: tassazione di impresa, burocrazia, servizi pubblici locali tempi della giustizia e tempi di pagamento della PA e costo energia elettrica.

Il gap dell’Italia, rispetto alla media europea di riferimento di dieci indicatori, si osserva che la tassazione di impresa, espressa dal total tax rate in Italia è più alta di 17 punti percentuali rispetto alla media europea, il divario relativo al peso della burocrazia è di 24 punti percentuali, il ritardo digitale della Pa è di 16 punti percentuali, la lunghezza dei procedimenti civili di natura commerciale è più che doppia (+106,4%) i tempi di pagamento della Pa sono due volte e mezza più lunghi (+156,9) ed i tempi di pagamento ai subfornitori sono doppi (105,1%). Il costo dell’energia elettrica per una piccola impresa è superiore del 29,8% alla media europea di riferimento, l’inadeguatezza infrastrutturale è superiore di 36 punti percentuali e il divario relativo alla percezione della corruzione è di 20 punti percentuali (elaborazione su dati commissione europea, Eurostat, Banca Mondiale e Intrum Justitia).

Un paragrafo del saggio è dedicato alla Brexit il cui primo effetto è stato quello di spostare il baricentro del Made in Italy. Attualmente le esportazioni italiane sono per la maggioranza (54,7%) destinate nei 28 paesi extra Ue: all’attuale 45,3% si somma il 5,5% del Regno Unito per arrivare al 50,8%. Il lavoro monografico ha quindi consentito di rilevare la centralità delle piccole imprese, che rappresentano un patrimonio da tutelare e valorizzare; ciò in considerazione dell’elevato “peso” che hanno nel sistema economico nazionale ed in particolare in alcune Regioni. Per queste imprese, si auspicano gli autori della pubblicazione, vanno “costruiti” specifici percorsi di sviluppo.

Fra le peculiarità che rendono le Mpi interessanti, gli investimenti in Ricerca & Sviluppo, che se a livello nazionale mostrano una scarsa propensione (Ocse 2010 spesa totale pari all’1,3%), trovano nelle Mpi e nei distretti (0,7% nello stesso periodo di riferimento) un terreno fertile anche se non sempre segnalato come emerge dai dati raccolti in queste pagine: la capacità di conquistare nuovi mercati con la valorizzazione sia del capitale umano che della coesione sociale, dei rapporti con i territori e le comunità dei diritti, diventando così un fattore produttivo determinante. L’Italia si concentra soprattutto sulle innovazioni di uso, cioè sull’usare in maniera innovativa tecnologia di dominio pubblico o tecnologie importante.

Chiude il saggio l’analisi di vari casi aziendali di piccole imprese che hanno messo in campo differenti tipologie di processi innovativi tramite cui realizzare un’attività diversificata e pronta ad adattarsi ai mutamenti dell’economia.

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17 Ottobre 2024

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