Quattro milioni di aziende che generano un fatturato di due milioni di euro dando lavoro a 16 milioni di persone. Sono questi alcuni dei numeri delle piccole e medie imprese che mostrano quanto di piccolo ci sia poco nelle Pmi. A parlarne tracciandone storia recente e prospettive sono Paolo Agnelli, imprenditore, e Matteo Richetti, politico, che intervistati da Giancarlo Loquenzi nel libro “Piccole per modo di dire” (Fausto Lupetti Editore, Collana saggistica, 164 pp.) danno una lettura di un mondo che rappresenta la spina dorsale dell’economia italiana.
Le imprese, dunque, diventano il centro di una discussione fra il politico e l’imprenditore. Fra le intenzioni dichiarate subito dall’intervistatore, capire se la politica abbia o meno la percezione di quanto sia vitale per l’interesse del Paese la struttura delle sue piccole e medie imprese ma anche capire se le imprese sono pronte a raccogliere le sfide e le occasioni che il contesto nazionale e internazionale gli pone; se le strutture dimensionali e manageriali sono davvero le più adatte a reggere il futuro della concorrenza senza frontiere.
A fare da cornice, la globalizzazione e la diversa percezione fra politica e imprese, l’avvento dell’automazione con tutti i problemi etici annessi, il problema dei dazi e delle imposizioni dell’Europa che si scontrano troppo spesso con un quadro normativo che varia da paese a paese. Macrotemi, quindi, dai quali però pagina per pagina emerge un’Italia che un tempo aveva dei veri e propri distretti, come quello della manifattura, resi immateriali dall’esasperazione della concorrenza, e quindi dei costi di produzione. Su queste eccellenze ha inciso profondamente però “la mancanza di regole che valgono per tutti quando per anni ci hanno fatto credere che il problema dell’economia italiana fossero le troppe regole”, dice Richetti in un passaggio. Certo, ma con il fisco come la mettiamo? “Io da anni, ribatte invece Agnelli, ho uno stabilimento in Polonia, pago il 20% di tasse contro il 62% che pagherei in Italia” emerge quindi subito come una grande partita da affrontare per le Pmi sia il fisco, sul quale senza un accordo non si può fare molto.
Un’Italia ricca di contraddizioni stretta fra la promessa di una globalizzazione progressiva e la realtà di una globalizzazione cattiva, che non lasciando spazio a vie di mezzo ha finito con l’erodere il ceto medio, scivolato verso la povertà. Oggi il problema perciò è governare la globalizzazione. Ecco quindi i dubbi sull’automazione, inevitabile ma pericolosa per il costo sociale che comporta. E quindi innovazione tecnologica fa sempre più rima con disintermediazione: la soluzione, come in molte cose, sembra perciò nel mezzo: riconversione e trasformazione, largo alle startup e alle idee innovative purché queste imprese giovani non abbiano la stessa durata del finanziamento loro concesso. Altro nodo spinoso quello del credito. Per Agnelli “non sono i vari meccanismi di detrazioni dalle tasse che cambiano la vita alle imprese quanto la tipologia di finanziamento che dovrebbe permettere una maggiore liquidità alle aziende, aiutandole nella ricerca del credito”. E qui si inseriscono gli accordi di Basilea che hanno dato regole più stringenti alle banche per concedere credito, l’essere bancocentriche delle imprese italiane, in mancanza di un istituto dello Stato, senza il cui finanziamento non vanno avanti.
Alla fine del libro è chiaro come politico e imprenditore non vadano poi così d’accordo. Anzi. Allo stesso tempo, però, emerge la necessità di un percorso di crescita condiviso che renda competitive le piccole e medie imprese, che renda la politica consapevole del tesoro rappresentato dalle Pmi, costante elemento di valore sul territorio.