Non saranno le parole, i palliativi, né l’assistenzialismo a salvare le imprese italiane. E quindi i posti di lavoro, i redditi e tutto il sistema economico. Per far fronte alla devastante crisi economica in cui siamo finiti (l’Fmi stima un calo del pil di quasi il 13% nel 2020), oltre a molti annunci e dichiarazioni, la principale soluzione del governo sembra essere l’estensione della cassa integrazione e del divieto di licenziamenti fino a fine anno.
Se è stato giusto sostenere i redditi in un momento così complicato, sarebbe sbagliato pensare che una risposta temporanea e di emergenza possa diventare la soluzione permanente. Innanzitutto la Cig, oltre ad essere erogata poco e in ritardo, potrebbe terminare già a luglio. Soprattutto, l’assegno corrisponde solo a parte minima dello stipendio (circa il 40%) e, di fatto, impoverisce i lavoratori. E sarebbe quindi meglio una disoccupazione, diremmo una NASPI COVID, in cui al lavoratore possa essere erogato almeno l’80% dello stipendio.
Ovviamente, per far questo, non bisogna prorogare il divieto dei licenziamenti, il cui termine scade attualmente il 17 agosto. Se poi l’impresa vorrà e potrà tornare ad assumere qualcuno – come si spera e come ci impegneremo a fare con tutte le nostre forze – costui dovrà obbligatoriamente essere lo stesso lavoratore messo in mobilità. Però è importante che le aziende abbiano la possibilità di ristrutturarsi, ripensarsi, riorganizzarsi, senza essere ingessate in norme imperative che, in fondo, danneggiano tutti. Se un’impresa cessa l’attività perché le prospettive non lo consentono e la liquidità è terminata, per esempio, i lavoratori in cassa integrazione che fine fanno?
Una domanda che il governo dovrebbe farsi, anche perché quasi tutti i costi vivi sono ancora lì: le scadenze fiscali, infatti, non sono state cancellate ma solo rinviate; gli affitti, le utenze, i mutui sono ancora da pagare; l’Imu continua a pesare come un macigno e i contributi previdenziali per gli imprenditori – comprensivi di cedolino – sono somme difficili da far uscire dal bilancio quando le entrate sono a zero. Tra l’altro, gli aiuti alle imprese hanno funzionato davvero male. In particolare il finanziamento da 25.000 euro è stato fumo negli occhi, visto che per poter accedere a tale prestito si è sostanzialmente ricorso a nuovo indebitamento. Senza contare i numerosi intoppi procedurali che hanno allungato i tempi proprio quando serviva liquidità urgente.
Insomma, più che una ripartenza, dobbiamo ancora rimetterci in piedi. Solo che le politiche adottate fin qui azzoppano le imprese invece di aiutarle, con il rischio che in molti non saranno in grado di proseguire lungo il difficile percorso che ci aspetta. Più che estensione della cassa integrazione e divieto di licenziamenti, servono infatti interventi strutturali per aiutare le aziende, che creano valore aggiunto, e quindi implementano l’economia. In particolare bisogna intervenire nel settore del turismo, fino a qui pressoché trascurato, anche se rappresenta quasi il 14% del pil nazionale e molto di più in alcune aree del Paese. Non c’è più spazio per gli annunci o per assistenzialismo.
Stefano Ruvolo
Presidente Confimprenditori Nazionale